Iscrizione al TRIBUNALE

 

Siamo a rendere noto come, avendo il Ministero equiparato, in pratica, la figura del CTU e quella del Perito, diversi Tribunali stiano predisponendo le regole per l’iscrizione ad entrambi gli Albi richiedendo in particolare, fra le altre cose ed in linea con le disposizioni ministeriali del dicembre 2023,  un’adeguata conoscenza dell’attività, comprovata attraverso l’esercizio della professione (in modo  effettivo e continuativo per almeno 5 anni) o la produzione di un attestato di partecipazione a corsi di almeno di 20 ore, fermo restando che se l’interessato non è iscritto in un Albo, Collegio, Ordine, Associazione o Camera di Commercio non potrà essere inserito negli albi del Tribunale. Numerosi enti od associazioni propongono, al proposito, percorsi formativi specifici ma non tutti vengono ritenuti “affidabili” dai singoli Tribunali che potranno comunque fornire più precise indicazioni sui requisiti richiesti, visto che ogni Tribunale agisce con propri criteri nell’applicazione delle indicazioni del Ministero contenute nel “Manuale Utente Candidato”.

In questo articolo descriveremo il contenuto dell’articolo 4 del DECRETO 4 agosto 2023, n. 109: Requisiti per l’iscrizione all’albo dei consulenti tecnici
IL MINISTRO DELLA GIUSTIZIA di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze e con il Ministro delle imprese e del made in Italy; ha adottato il seguente regolamento: DECRETO 4 agosto 2023, n. 109 concernente l’individuazione di ulteriori categorie dell’albo dei consulenti tecnici di ufficio e dei settori di specializzazione di ciascuna categoria, l’individuazione dei requisiti per l’iscrizione all’albo, nonché la formazione, la tenuta e l’aggiornamento dell’elenco nazionale.
Entrata in vigore del provvedimento: 26/08/2023

Art. 4.

Requisiti per l’iscrizione all’albo dei consulenti tecnici

  1. Ai sensi dell’articolo 15 delle disposizioni di attuazione, possono essere iscritti nell’albo coloro che:
  2. a) sono iscritti nei rispettivi ordini o collegi professionali, o ruoli, o associazioni professionali;
  3. b) sono in regola con gli obblighi di formazione professionale continua, ove previsti;
  4. c) sono di condotta morale specchiata;
  5. d) sono dotati di speciale competenza tecnica nelle materie oggetto della categoria di interesse;
  6. e) hanno residenza anagrafica o domicilio professionale ai sensi dell’articolo 16 della legge 21 dicembre 1999, n. 526 nel circondario del tribunale.
  7. Ai fini del comma 1, lettera a), il professionista deve essere iscritto nel rispettivo ordine o collegio professionale. Per le professioni non organizzate in ordini o collegi, il professionista deve essere iscritto nel ruolo dei periti e degli esperti tenuto dalla camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura o ad una delle associazioni professionali inserite nell’elenco di cui all’articolo 2, comma 7, della legge 14 gennaio 2013, n. 4, che rilasciano l’attestato di qualità e di qualificazione professionale dei servizi prestati dai soci.
  8. Gli obblighi di formazione professionale continua di cui al comma 1, lettera b) , sono quelli previsti dai rispettivi ordinamenti professionali o, per le professioni non organizzate in ordini o collegi, dall’associazione di cui all’articolo 2 della legge n. 4 del 2013 alla quale è iscritto l’aspirante.
  9. Il requisito della speciale competenza tecnica previsto dal comma 1, lettera d) , sussiste quando con specifico riferimento alla categoria e all’eventuale settore di specializzazione l’attività professionale è stata esercitata per almeno cinque anni in modo effettivo e continuativo.
  10. In mancanza del requisito di cui al comma 4, la speciale competenza tecnica è riconosciuta quando ricorrono almeno due delle seguenti circostanze:
  11. a) possesso di adeguati titoli di specializzazione o approfondimento post-universitari, purché l’aspirante sia

iscritto da almeno cinque anni nei rispettivi ordini, collegi o associazioni professionali;

  1. b) possesso di adeguato curriculum scientifico, comprendente, a titolo esemplificativo, attività di docenza, attività di ricerca, iscrizione a società scientifiche, pubblicazioni su riviste scientifiche;
  2. c) conseguimento della certificazione UNI relativa all’attività professionale svolta, rilasciata da un organismo di certificazione accreditato.
  3. Per la categoria medico-chirurgica, ai fini di cui al comma 4 rileva l’esercizio della professione successivamente al conseguimento del titolo di specializzazione. Per la specializzazione in medicina legale, non si applica il requisito di cui al comma 4 ed è sufficiente il possesso di uno tra quelli previsti al comma 5, lettere a) e b) .
  4. L’aspirante può essere iscritto, nell’ambito del medesimo albo, in più categorie o settori di specializzazione, quando soddisfa i requisiti previsti per ciascuno di essi.
  5. Ai fini dell’iscrizione nella categoria e nel settore di specializzazione richiesti, la speciale competenza tecnica è valutata dal comitato.

Riforma Cartabia: le notifiche via PEC

GU-L-n.-87_2023-conversione-DL-n.-51_2023

Le innovazioni introdotte dalla cd. ‘Riforma Cartabia’ a mezzo del D.Lgs. 149/2022 non hanno solamente riguardato l’ambito strettamente processuale del diritto civile, ma si sono altresì amplificate in tutte quelle attività che, come le notifiche a mezzo posta elettronica certificata, sono abitualmente compiute dai difensori nell’esercizio delle proprie prerogative professionali.

È stato infatti fatto obbligo di procedere alla notifica via PEC ogniqualvolta il destinatario sia tenuto per legge a dotarsi di un indirizzo di posta elettronica certificata risultante dai pubblici elenchi, ovvero abbia eletto un proprio domicilio digitale ai sensi del C.A.D. (Codice dell’Amministrazione Digitale, contenuto nel D.Lgs. 82/2005).

Quali sono i Pubblici Elenchi?

L’art. 3-bis della Legge 53/1994 prevede che la notifica con modalità telematiche possa essere eseguita utilizzando esclusivamente un indirizzo di posta elettronica certificata risultante da pubblici elenchi, e ciò tanto per quanto riguarda il mittente, che i destinatari di tale notifica.

Tali pubblici elenchi sono quelli indicati dall’art. 16-ter della Legge 221/2012, ovvero quella di conversione del cd. ‘Decreto Crescita 2.0’.

Non tutti i registri autorizzati sono però totalmente sovrapponibili, ma occorre invece prestare la dovuta attenzione a quale consultare, soprattutto con riferimento alla natura del soggetto destinatario della notifica.

Quali differenze tra ReGIndE ed INI-PEC?

Nella pratica, gli elenchi PEC più comunemente utilizzati sono il ReGIndE e l’INI-PEC.

Il primo è il Registro Generale degli Indirizzi Elettronici, gestito direttamente dal Ministero della Giustizia, ove sono contenuti i dati dei soli cd. ‘soggetti abilitati esterni’, ovverosia tutti coloro a cui, in virtù del proprio titolo o qualifica di rango non ministeriale, è consentito interagire con un ufficio giudiziario nell’ambito del processo civile telematico (ad es. avvocati, curatori e consulenti tecnici).

Il secondo è invece l’Indice Nazionale degli Indirizzi di Posta Elettronica Certificata, gestito dal Ministero per lo Sviluppo Economico e riconosciuto dal predetto Codice dell’Amministrazione Digitale per consolidare i riferimenti di tutti i soggetti all’obbligo legale di domicilio digitale, a loro volta suddivisi fra Imprese e Professionisti.

Quest’ultimo, peraltro liberamente accessibile senz’alcuna autenticazione, si rivela quindi preferibile per ricercare correttamente la casella PEC dei privati iscritti al Registro delle Imprese presso la Camera di Commercio o in tutti gli albi professionali, dagli agenti di cambio ai veterinari.

I soggetti pubblici: Registro PP.AA. ed I.P.A.

Quanto agli indirizzi facenti capo ad enti pubblici, l’elenco d’elezione è costituito dal Registro degli Indirizzi di Posta Elettronica Certificata delle Amministrazioni Pubbliche, sancito ai sensi dell’art. 16, co. 12 del D.L. 179/2012 ed anch’esso gestito dal Ministero della Giustizia nell’ambito del Portale dei Servizi Telematici.

La consultazione di tale banca dati è riservata ai soli detentori dei certificati muniti di apposito token crittografico per l’accesso ai servizi giudiziari, quali avvocati ed ufficiali giudiziari.

Essendo il Registro PP.AA. ancora in fase di completamento, in via residuale l’art. 28 del D.L. 76/2020 permette l’utilizzo degli indirizzi presenti nell’Indice delle Pubbliche Amministrazioni (I.P.A.) ogniqualvolta il corrispondente campo nel PP.AA. non sia già stato popolato. In questo caso, il mittente dovrà però aver cura di corredare la relata di notifica dalla specifica che l’indirizzo PEC del destinatario sia stato estratto da I.P.A. perché non presente nel Registro PP.AA.

I domicili digitali volontari: l’INAD

Pur anch’esso previsto dal Codice dell’Amministrazione Digitale, solo di recente l’Indice Nazionale dei Domicili digitali delle persone fisiche, dei professionisti e degli altri enti di diritto privato non tenuti all’iscrizione in albi, elenchi o registri professionali o nel registro delle imprese è stato formalmente pubblicato, e ad oggi è già in grado di ricevere gli indirizzi PEC che qualsiasi cittadino può indicare come proprio domicilio digitale, dove poter altresì ricevere tutte le comunicazioni da parte della Pubblica Amministrazione.

Benché l’adesione a tale registro sia su base del tutto volontaria, in ragione della Riforma Cartabia essa comporta la necessità di prediligere l’indirizzo PEC censito nel registro INAD per destinarvi qualsivoglia notifica giudiziale, la quale, pertanto, dovrà effettuarsi con modalità telematiche.

Quale banca dati è la migliore

In considerazione di quanto sopra accennato, la risposta a questa domanda rimane, come nella migliore tradizione legale… dipende! Non esiste una banca dati onnicomprensiva di tutti gli indirizzi di posta elettronica certificata cui validamente inviare una notifica telematica, ma occorre invece selezionare quella (o quelle) in cui ricercare lo specifico soggetto destinatario, a seconda della sua appartenenza alle diverse categorie in cui sono tutt’ora suddivisi i suddetti pubblici elenchi.

Occorre infatti tenere bene a mente che la notifica PEC effettuata verso un indirizzo ‘erroneo’, perché non appartenente alla banca dati preferenziale per quel determinato destinatario, può comportare un vizio insanabile, tale da impedire il perfezionamento della notifica stessa.

Cos’è la pec europea

Della pec europea (tecnicamente REM Registered Electronic Mail) si parla ormai da anni.
Il primo passo significativo che è stato compiuto in Italia però è stato realizzato con l’emanazione del dl n. 135/2018, il quale ha affidato ad un DPCM, l’adozione delle misure necessarie per garantire la conformità della PEC alle regole sancite dal Codice dell’Amministrazione Digitale.
L’entrata in vigore del DPCM comporta l’abrogazione dell’art. 48 del CAD, per cui la PEC, come la conosciamo oggi, dovrà intendersi abrogata.
Deve ricordarsi infatti che il CAD ammette anche l’utilizzo di un altro servizio elettronico per il recapito certificato e qualificato, nel rispetto di quanto previsto dal Regolamento Europeo 910/2014 meglio noto come aIDAS.
Insomma, la pec è destinata a scomparire per dare spazio alla REM, anche se per i gestori non è ancora stata stabilita una data certa per la migrazione.
Detto questo vediamo di capire meglio come e perché è nata la pec europea e quali sono le novità tecniche e giuridiche che la riguardano.

Finalità della pec europea

L’idea della pec europea nasce quando il Consiglio Europeo, nelle conclusioni del 27 maggio 2011, ha invitato la Commissione Europea a dare il suo contributo al mercato unico, creando le condizioni necessarie per il riconoscimento reciproco e transfrontaliero di funzioni essenziali come quelle che hanno a che fare con i servizi elettronici di recapito.
A specificarlo è stato il Regolamento UE 910/2014 (sotto allegato) “in materia di identificazione elettronica e servizi fiduciari per le transazioni elettroniche nel mercato interno” che nel considerando n. 66 precisa: “È essenziale prevedere un quadro giuridico per agevolare il riconoscimento transfrontaliero tra gli ordinamenti giuridici nazionali esistenti relativi ai servizi elettronici di recapito certificato. Tale quadro potrebbe aprire inoltre per i prestatori di servizi fiduciari dell’Unione nuove opportunità di mercato per l’offerta di nuovi servizi elettronici di recapito certificati paneuropei”.

Pec tradizionale e pec europea: differenze

Dalla premessa appare chiaro che la pec europea è un servizio di recapito frontaliero certificato o molto più semplicemente è uno strumento elettronico che permette di recapitare messaggi certificati in tutta Europa.
Il servizio pec disponibile in Italia infatti, ad oggi consente di recapitare messaggi di posta elettronica certificata con lo stesso valore legale di una raccomandata con ricevuta di ritorno, solo sul territorio italiano.
Grazie alla nuova pec europea tutto questo può varcare i confini. Si potranno di conseguenza inviare email certificate con valore legale di una raccomandata postale in tutta Europa.
Per fare questo però è necessario adottare schemi interoperabili di eDelivery, ossia di recapito elettronico che risultino conformi ai criteri fissati dall’European Telecommunications Standards Institute (ETSI).

I criteri elaborati dall’Agid

I criteri necessari per rendere le caselle pec italiane valide in tutta Europa, sono stati elaborati dall’Agid e resi noti il 14 giugno 2021 con il documento “REM SERVICES – Criteri di adozione degli standard ETSI – Policy IT” (sotto allegato).
Documento che ha definito “le nuove Regole tecniche conformi ai requisiti funzionali previsti per un servizio elettronico di recapito certificato qualificato dal Regolamento eIDAS, con il quale i gestori italiani si potranno presentare non solo sul mercato interno, ma anche nell’ambito territoriale di applicazione del Regolamento eIDAS beneficiando delle presunzioni legali ivi previste.”
Alla realizzazione del documento hanno preso parte i più importanti gestori di caselle elettroniche certificate presenti in Italia: Aruba, Actalis, Consiglio Nazionale del Notariato, Notartel, InfoCert, InnovaPuglia, Irideos, ITnet, Namirial, Poste Italiane, Register.it, Sogei, Telecom Italia Trust Technologies, Uninfo, AssoCertificatori.
Solo quando saranno terminati i test, che coinvolgono nel 40 soggetti in 15 Paesi UE sarà possibile un dialogo tra i fornitori dei servizi Pec e un utilizzo effettivo della pec europea da parte di imprese, cittadini e istituzioni.

Requisiti della pec europea

Tralasciando la parte tecnica del documento dell’Agid, che interesserà senza dubbio gli addetti ai lavori, è necessario ricordare che i criteri indicati nel documento dell’Agenzia per l’Italia Digitale sono stati elaborati nel rispetto di quanto sancito dal Regolamento UE 910-2014, che all’art. 44 si è preoccupato di definire i requisiti necessari che devono possedere i servizi elettronici di recapito certificato qualificato.
La norma suddetta richiede in particolare la pluralità dei fornitori, la capacità di garantire un livello elevato di sicurezza per quanto riguarda l’identificazione del mittente, così come del destinatario, prima della trasmissione dei dati.
L’invio e la ricezione devono essere inoltre garantiti da una firma elettronica avanzata o da un sigillo elettronico per escludere modifiche non rilevabili dei dati (qualsiasi modifica ai dati necessaria al fine d’inviarli o riceverli è chiaramente indicata al mittente e al destinatario dei dati stessi).
Data e ora d’invio e ricezione e qualsiasi modifica dei dati devono essere infine indicate da una validazione temporale elettronica qualificata.

Effetti giuridici della pec europea

L’art. 43 del Regolamento UE 910-2014 definisce invece quelli che sono gli effetti giuridici di un servizio elettronico di recapito certificato.
La norma a questo proposito dispone che i dati inviati e ricevuti tramite un servizio elettronico di recapito certificato sono ammissibili come prova nei procedimenti giudiziali anche se hanno forma elettronica e anche se non “soddisfano i requisiti del servizio elettronico di recapito certificato qualificato”.
I dati inviati e ricevuti tramite servizio elettronico di recapito certificato qualificato inoltre beneficiano della presunzione:
  • d’integrità;
  • dell’invio di tali dati da parte del mittente identificato;
  • della loro ricezione da parte del destinatario identificato;
  • di accuratezza della data e dell’ora dell’invio;
  • della ricezione indicata dal servizio elettronico di recapito certificato qualificato.

 

Furto in supermercato e licenziamento dipendente

Nell’ordinanza numero 770 depositata il 12 gennaio 2023 dalla sezione lavoro della Suprema Corte di Cassazione (sotto allegata), i giudici hanno ritenuto insussistente la negligenza di cui era stata accusata – e per questo licenziata – la dipendente di un supermercato che non si era opposta alla spesa di alcuni avventori che si erano poi rifiutati di pagarne una parte del prezzo.

Nella vicenda, un gruppo di tre clienti aveva lasciato il punto vendita del supermercato senza aver posizionato sul rullo della cassa tutta la merce presente nel carrello, che con un atto di prepotenza pretendeva di non pagare.

La cassiera è stata licenziata in quanto ritenuta negligente ed inadempiente per non essersi opposta ai clienti.

La dipendente si è quindi rivolta alla magistratura.

Legittimo rifiuto privo di rilievo disciplinare

I giudici l’hanno reintegrata e risarcita in quanto il suo comportamento è consistito nel rifiuto di svolgere mansioni che non le appartengono. Il datore di lavoro deve infatti garantire la sicurezza del dipendente, il cui rifiuto di opporsi a un furto è del tutto legittimo e privo di rilievo disciplinare.

Il ricorso della società che gestisce il supermercato è stato quindi rigettato ed alla stessa è stato imposto di reintegrare la cassiera al suo posto, versandole anche un congruo risarcimento.

Quanto precede anche perché la donna aveva prontamente avvisato gli operatori del servizio di sicurezza, ma questi avevano preferito attendere l’arrivo dei carabinieri anziché intervenire. Nonostante tra la merce pagata e quella asportata vi fossero ben settecento euro di differenza, nessuna complicità, negligenza o inadempienza era da addebitare alla donna.

Obblighi di protezione del datore di lavoro

Il licenziamento è illegittimo in quanto è il datore di lavoro ad essere inadempiente rispetto al suo obbligo di protezione del personale dipendente.

È del tutto comprensibile che la ragazza si sia intimorita dinanzi al comportamento dei soggetti responsabili del furto, sentendosi minacciata ed in pericolo.

Il datore di lavoro non può pretendere che una dipendente affronti da sola tre malviventi, soprattutto se è addirittura la sicurezza a decidere di non intervenire ma anzi di attendere l’arrivo delle forze dell’ordine.

Cass. n. 770/2023

L’art. 15 della Costituzione sancisce che solo il giudice con provvedimento motivato possa imporre limiti alla libertà di comunicazione, tale potere non spetta al questore che può solo proporre la misura restrittiva.

Uso e detenzione del cellulare per il condannato

Nell’accogliere la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale penale di Sassari, la Corte Costituzionale, in un passo della motivazione della sentenza n. 2/2023 (sotto allegata) precisa che al questore può spettare “la titolarità del potere di proporre che a un determinato soggetto sia imposto il divieto di possedere o utilizzare un telefono cellulare, ma non gli compete di adottare il provvedimento, poiché l’art. 15 Cost. non lo consente: la decisione non può che essere dell’autorità giudiziaria, con le procedure, le modalità e i tempi che compete al legislatore prevedere, nel rispetto della riserva di legge prevista dalla Costituzione.”

Detto questo ripercorriamo in sintesi i passaggi significativi della vicenda e del ragionamento compiuto dalla Consulta per giungere alle conclusioni suddette.

Il Tribunale penale di Sassari solleva innanzi alla Consulta questione di legittimità costituzionale di alcune disposizioni nel Codice Antimafia nella parte in cui prevede che il questore possa imporre ai soggetti condannati definitivamente per delitto non colposo, il divieto di possesso o utilizzo di qualsiasi dispositivo per la comunicazione radiotrasmittente, tra cui figurano anche i cellulari.

Per il remittente le norme violerebbero l’art. 15 della Costituzione, il quale dispone che: ” La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili. La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria.”

La Corte costituzionale, dopo aver chiarito nel dettaglio il significato dell’espressione “qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente», contenuto nell’art. 3, comma 4, cod. antimafia” ritiene il ricorso fondato e ricorda al riguardo che correttamente il giudice remittente ha lamentato la violazione dell’art. 15 della Costituzione.

Questa norma infatti definisce come inviolabile la libera di comunicazione, stabilendo per questo che la stessa possa essere sottoposta a limitazioni solo con provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria.

La Corte, per dare ulteriore fondamento alla sua decisione, ricorda che in due precedenti la stessa ha enunciato i seguenti principi:

  • “il vaglio dell’autorità giurisdizionale risulta infatti associato alla garanzia del contraddittorio, alla possibile contestazione dei presupposti applicativi della misura, della sua eccessività e sproporzione, e, in ultima analisi, consente il pieno dispiegarsi allo stesso diritto di difesa;
  • la legittimità costituzionale delle misure di prevenzione limitative della libertà protetta dall’art. 15 Cost. è “necessariamente subordinata all’osservanza del principio di legalità e alla esistenza della garanzia giurisdizionale”.
  • Corte Costituzionale n. 2/2023

Nuovo giudizio se c’è il dubbio sulla responsabilità del medico del Pronto Soccorso

Con la sentenza della Corte di Cassazione n. 44549/2022 (sotto allegata) viene accolto il ricorso delle parti civili che hanno subito la perdita della parente dopo che la stessa era stata portata al Pronto Soccorso a causa di forti dolori addominali e vomito.

Al medico del pronto Soccorso che l’ha presa in carico è stata contestata l’errata diagnosi, la carenza informativa alla paziente, alla quale ha rappresentato una condizione meno grave di quella reale e le conseguenti dimissioni. Fatto sta che il giorno seguente la paziente peggiora, viene sottoposta ad intervento chirurgico e muore.

Il Medico del Pronto Soccorso viene assolto in primo e in secondo grado perché non viene rilevato un suo errore diagnostico. Il ricovero inoltre non avrebbe scongiurato l’esito infausto a causa delle pregresse condizioni della paziente. Escluso quindi il nesso di causa tra la condotta del medico e l’evento dannoso.

La decisione viene impugnata dalle parti civili in sede di Cassazione, rilevando principalmente la mancata acquisizione in sede di appello della sentenza del Tribunale che si è espresso sulla responsabilità di altri sanitari in relazione al caso di specie e la relazione peritale acquisita in questo procedimento e giunta a conclusioni ben diverse in ordine alla responsabilità del medico del Pronto Soccorso.

Tesi che la Cassazione condivide anche perché nel caso di specie l’imputato, come risulta dal verbale del dibattimento, ha dato il proprio consenso alla acquisizione della sentenza e della perizia medico legale.

I due periti in effetti sono giunti alla conclusione che alla morte della paziente derivante dal peggioramento delle sue condizioni ha contribuito il mancato ricovero e l’omessa esecuzione dei necessari accertamenti diagnostici. Non è dato comprendere se le auto dimissioni della paziente siano dipese da un difetto di informazione sulle sue reali condizioni e sulla necessità di ulteriori esami e approfondimenti.

Trattasi di elementi che in ogni caso rendono dubbie le conclusioni della Corte di Appello in relazione alla responsabilità del sanitario.

La sentenza va quindi annullata limitatamente agli effetti civili, con conseguente rinvio per un nuovo giudizio per valere in grado di appello.

Cassazione n. 44549/2022

Parcheggio auto senza RCA in luogo privato

Non rileva che l’auto senza assicurazione sia in sosta in un’area privata, questa situazione non esime il proprietario dall’obbligo di assicurare il veicolo, soprattutto se l’area ha una destinazione ad uso pubblico e quindi risulta aperta alla circolazione.

Vediamo perché la Cassazione è giunta a questa conclusione nell’ordinanza n. 37851/2022 (sotto allegata).

Il GdP respinge l’opposizione a un verbale di accertamento con il quale è stata irrogata la multa al trasgressore per aver sostato la sua auto priva di assicurazione in un luogo privato.

Decisione che viene impugnata ma che il Tribunale in appello conferma perché anche se l’auto è stata parcheggiata in un luogo privato tale area era comunque aperta alla circolazione.

Tesi che viene confermata anche dalla Cassazione la quale, nel respingere il ricorso del trasgressore soccombente fa presente che il Tribunale, con una valutazione di fatto insindacabile in sede di legittimità ha affermato che: “Come si desume dalle fotografie in atti, il parcheggio è comunque aperto alla circolazione, ragione per cui non è seriamente contestabile l’obbligo assicurativo, la cui ratio risiede nella esigenza che il veicolo, per quanto in sosta, possa essere coinvolto in sinistri stradali o possa essere causa o concausa degli stessi” e che, richiamando la Cassazione n. 14367/2018 : “(La definizione di “strada”, che comporta l’applicabilità della disciplina del relativo codice, non dipende dalla natura, pubblica o privata, della proprietà di una determinata area, bensì dalla sua destinazione ad uso pubblico, che ne giustifica la soggezione alle norme del codice della strada per evidenti ragioni di ordine pubblico e sicurezza collettiva.”

Cassazione n. 37851/2022

Tribunale di Cassino – sentenza n. 485/2022

Il padre che non mantiene il figlio commette una violazione degli obblighi di assistenza familiare; e questo nonostante la mamma e i nonni provvedano ai bisogni del minore.
È questo il principio ribadito dal Tribunale di Cassino con sentenza n. 485/2022.

Il padre in questione non aveva mai riconosciuto le somme stabilite dal Tribunale (ignorandole o versando meno di quanto pattuito) ed era rimasto assente dal punto di vista affettivo. Considerato ciò, non è importante che mamma e nonni si fossero presi in carico i bisogni del minore: la minore età comporta uno stato di bisogno che necessita mezzi di sussistenza da parte di entrambi i genitori.

Il caso

La donna afferma che il padre abbandonò il domicilio in seguito alla nascita del figlio. Il Tribunale, perciò, stabilì che l’uomo dovesse versare 200 euro al mese e provvedere al 50% delle spese straordinarie; cosa mai successa, e così madre e nonni dovettero provvedere.

La condanna

L’uomo cominciò a versare somme variabili (100, 150, 200 euro) a partire dal 2018, facendo visita al figlio in rare occasioni. Per il Tribunale di Cassino, ciò è sufficiente per condannare l’uomo per violazione degli obblighi di assistenza familiare (art. 570 c.p.).

Due i principi di Cassazione rilevanti sul tema:

  1. «in materia di violazione degli obblighi di assistenza familiare, la minore età del figlio, a favore del quale è previsto l’obbligo di contribuzione al mantenimento, rappresenta “in re ipsa” una condizione soggettiva di stato di bisogno, che non è esclusa per il fatto che, in virtù della elevata disponibilità economica del genitore presso il quale è collocato, il figlio non versi in reale stato di bisogno, ma goda anzi di pieno benessere ed elevato tenore di vita»;
  2. «non è nemmeno prospettabile la carenza di un reale stato di bisogno del figlio ove le sue esigenze siano state affrontate dalla madre e dai familiari di costei, dal momento che, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 570 c.p. comma 2 n. 2) c.p., l’obbligo di fornire i mezzi di sussistenza ai figli minori o inabili al lavoro ricorre anche quando vi provveda in tutto o in parte l’altro genitore con i proventi del proprio lavoro o con l’intervento di altri congiunti, tale sostituzione non eliminando lo stato di bisogno in cui versa il soggetto passivo e non elidendo l’obbligo contributivo dell’altro genitore non affidatario” (Cass. Sez. 6, n. 17766/2019).

Considerato che dal 2014 al 2018 l’imputato era in condizioni economiche tali da potersi permettere di adempiere ai propri obblighi di mantenimento, il Tribunale conferma la condanna.